giovedì, giugno 04, 2009

Mentre in Italia un satiro-premier ci costringe a parlare di gossip un gigantesco Obama fa la storia



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Obama, il linguaggio del cuore
di VITTORIO ZUCCONI

Nelle terre del "libro", dunque nella culla del Verbo, il nuovo presidente americano si affida proprio alla forza della parola per fare quello che nessuno prima di lui è riuscito a fare, toccare i cuori e le menti del mondo arabo.

È ovvio dire che dopo otto anni di Bush, mentre sono ancora in corso due guerre d'occupazione in nazioni musulmane, la sua impresa è proibitiva, e che le aspettative per il suo discorso in quella università del Cairo da mille anni centro del mondo sunnita, sono troppo grandi perché non producano delusioni. Già la voce spettrale di Osama bin Laden si è alzata per svuotare ed esorcizzare la sua presenza in Egitto, segnando le sue controparole di condanna e di odio con l'assassinio rituale di un diplomatico inglese rapito in Mali, e avvertendo che "l'America raccoglierà i frutti dell'odio che semina". Ci sono quasi 100 anni di storia, dalla dichiarazione di lord Balfour che fece la prima spartizione arbitraria e insensata della regione nel 1916 a dimostrare che nessuno ha mai trovato - o voluto trovare - la chiave per aprire la porta della pace. Chi osò farlo, come Ytzhak Rabin o Anwar Sadat proprio al Cairo, pagò con la propria vita.

Ma nessuno prima di questo presidente americano aveva portato nella terra del Verbo e del Libro la novità preoccupante di una persona e di una storia che sta, come dimostra la bordata preventiva lanciata da una preoccupatissima al Qaeda in ben due messaggi, sparigliando le carte dei luoghi comuni. Un capo di stato occidentale e genericamente "cristiano" con il suo viso, con un nome come Hussein, la "piazza araba" non lo aveva mai visto. E su questo lui apertamente punta, ostentando in tutte le interviste e le dichiarazioni quei legami familiari con il mondo islamico e quel nome, che durante la campagna elettorale aveva cercato di minimizzare o nascondere.

Così sensazionale è la novità dell'uomo che parla un linguaggio diverso prima ancora di aprire bocca, che persino il teorico più arcigno della missione provvidenziale della forza americana, Paul Wolfowitz, ha dovuto riconoscere che "la maggioranza nel mondo musulmano riconosce il risultato che lui rappresenta". Una maggioranza che non si traduce ancora in un atteggiamento diverso nei confronti degli Stati Uniti, visti da tre quarti dei musulmani come un avversario, se non come il demonio che insidia l'esistenza stessa della cultura dell'Islam.

Qui sta la parte più facile di questa "missione della parola" che Barack cercherà di compiere oggi nell'università di al-Azhar al Cairo semplicemente usando un linguaggio diverso e dicendo ciò che anche Bush ripeteva nei discorsi, ma smentiva nelle azioni. Il suo sarà un cambio culturale, prima che politico, e un ritorno al pensiero, prima dell'azione. L'America non è la nemica dell'Islam; ogni disarmo verbale e culturale deve partire dall'affermazione del reciproco rispetto; il concetto stesso di "scontro di civiltà" è un nonsenso ideologico perché presuppone l'esistenza di due inconciliabili monoliti da un miliardo di cloni per parte.
In questo, la missione sarà un successo, ma non potrà essere un successo troppo grande perché il rischio che correrà il presidente non è quello di non essere preso sul serio. È quello di essere semmai preso troppo sul serio e quindi chiamato a tradurre in pratica il verbo e il messaggio nei confronti di quei regimi arabi che sono lo strumento di oppressione e di arretratezza che alimenta la fuga verso fondamentalismo religioso. Ci saranno infatti due pubblici arabi opposti che lo ascolteranno: quello delle strade, che rispondono disciplinatamente alle tv di stato che la questione palestinese è la ferita che li offende. Ma che, se fossero padroni di rispondere, come disse il direttore della network al-Arabya, direbbero invece che sono la loro vita quotidiana, il futuro dei figli, la loro condizione frustrante a essere in cima alle preoccupazioni. E ci saranno le orecchie tese dei governanti, dalla Siria all'Egitto, dall'Arabia Saudita all'Iran alla Libia, che vivono nel timore proprio di quella piazza araba, tenuta al guinzaglio corto e zittita.
Il vero problema impossibile di Obama non è, non ancora, il negoziato fra Israele e i palestinesi. È quello di rassicurare i despoti arabi dei quali ha bisogno, accendendo contemporaneamente l'entusiasmo e la fiducia delle piazze per questa nuova America. Dunque accendere il fuoco della speranza sotto la pentola senza far saltare il coperchio dei regimi dei quali ha bisogno, per le trattative con Israele e per il petrolio. Tutto sotto lo sguardo degli americani, a casa - il suo terzo pubblico e alla fine quello principale - che non amano l'idea di un presidente troppo filo islamico. Tre miracoli contraddittori fra loro, che soltanto un uomo dotato di enorme fede nel proprio verbo può sperare di compiere.

Vittorio Zuccni

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